Avete mai provato a vivere l’esperienza in Emilia del vino biologico naturale? Eugenio Bonanata, noto giornalista d’inchiesta, vi racconterà con questo articolo uno scorcio enologico di nicchia ma che rappresenta una filosofia di vita radicalmente diversa a quella a cui siamo abituati.
E’ pari solo allo 0,5% il vino ‘biologico ‘naturale’ su un 7%, che è invece la quantità totale di biologico prodotto in Italia. Come dire: c’è biologico e biologico. E non è affatto una questione di lana caprina. E’ una questione di sostanza.
“Ci siamo fatti condizionare dai lobbisti tedeschi, che partono da uve biologiche, ma poi realizzano vino in modo industriale”.
A dirci come stanno le cose è Alberto, che produce Barbera e Malvasia a Varano de’ Melegari (Parma).
Il “vero problema”, suggerisce, sta nel “disciplinare del biologico”. Finché ci muoviamo nella vigna, nessun problema.
“Tutti noi che facciamo il biologico non usiamo diserbo, né prodotti sistemici che entrano nel ciclo linfatico della pianta”. Si usa solo “verderame”. E fin qui il disciplinare è chiaro. I problemi e le differenze arrivano nel momento della vinificazione.
“Siamo in pochi a non usare additivi chimici di fermentazione, in cantina”. E quindi parliamo di albumine, caseina, lieviti geneticamente modificati. Alberto non li usa, anzi li mette all’indice. Eppure “il disciplinare in parte li prevede”, ci fa notare. Così, alla fine, se davvero ci fossero dei controlli serrati sul prodotto finale, emergerebbero ben poche differenze tra “i vini convenzionali e la maggior parte del biologico italiano”.
Dietro questo “disciplinare a maglie larghe” ci sarebbero “lobby e potentati” che hanno grandi interessi economici. I tedeschi in primis, ma anche qualche patron italiano.
E così, i vini davvero ‘naturali’ si restringono ad un range del 0,5% delle bottiglie made in Italy. “Non utilizzando alcun additivo in cantina – spiega Alberto – in alcuni casi restano piccoli difetti o comunque quelle caratteristiche distintive che rendono unico ciascun bicchiere”.
Il suo vino, “20mila bottiglie per ora”, si vende poco in Italia (15%), molto di più all’estero (85%). Soprattutto in “Inghilterra, Paesi Bassi e Australia”. Alberto, vero produttore e cultore del vino ‘naturale,’ ci racconta anche un’altra esperienza unica a cui ha aderito nell’ultimo anno.
“Avevo dei debiti, ma invece di mettermi nelle mani di una banca, mi sono affidato a dei soci investitori”.
Il modello si chiama Gat (Gruppo acquisto terreni) e implica il conferimento di un’azienda in crisi in una società più ampia in cui entrano risparmiatori che hanno a cuore quel terreno o quel prodotto.
“Il vantaggio è che possiamo decidere insieme lo sviluppo futuro degli investimenti”.
Alberto non si sente “deprivato” della sua proprietà, ma accompagnato verso “un nuovo corso”.
Nei prossimi anni, annuncia, aggiungeremo “un ettaro di vigna l’anno”. Niente banche, quindi.
Ma divisione del rischio tra “appassionati” della vigna e del vino.
Un modello di condivisione e “salvataggio” aziendale che sta prendendo piede in diverse realtà italiane.
Da nord a sud.
Dr. Nicola Gozzoli
Presidente Insieme per la Terra