Il Nuovo Agricoltore pubblica un articolo di Roberto Bartolini che, a qualcuno, può dare la senzazione del provocatorio. Cosa ne pensate?
I media ci sono cascati un’altra volta, dando la notizia del matrimonio tra Bayer e Monsanto, che segue la fusione Dow-DuPont e l’acquisizione più recente di ChemChina-Syngenta. Purtroppo, quando si deve parlare seriamente di agricoltura “professionale”, emergono sempre più l’assoluta mancanza di preparazione “tecnica” dei giornalisti dei quotidiani e delle televisioni, insieme alla loro perdurante incapacità di informarsi da chi conosce le cose in maniera obiettiva. E così il consumatore, anche lui ben poco informato su come si lavora realmente nei campi tutti i giorni, continua a considerare gli imprenditori agricoli, eccezion fatta per quelli che fanno biologico o biodinamico, degli impenitenti “inquinatori” alla mercè delle multinazionali della chimica e delle sementi.
Cosa abbiamo letto nei giorni scorsi su due quotidiani
Citiamo alcuni passi letti in questi giorni, cominciando da Enrico Livini su La Repubblica:
Il 75% del business dei pesticidi e diserbanti è controllata da tre colossi (vedi sopra) in un groviglio di conflitti d’interessi in cui l’industria è costretta a vendere i semi assieme ai prodotti agrochimici per non fare harakiri.
Peccato che era il 1980 quando le proiezioni sino al 2020 indicavano già allora che nel mondo dell’agrochimica, delle 50 e più grandi aziende che erano sul mercato in quegli anni, ne sarebbero rimaste non più di tre o quattro. Il motivo è che sarebbe diventato, come poi si è puntualmente verificato, sempre più difficile e costoso trovare nuove molecole efficaci contro i nemici delle colture ma nel contempo rispettose dell’ambiente.
Dalle fusioni la spinta economica necessaria per innovare
Lo vogliamo dire una buona volta che gli agrofarmaci che utilizziamo oggi, a differenza di quelli usati in campagna negli anni settanta o ottanta, hanno impatti ambientali nettamente inferiori e profili ecotossilogici confortanti? E che vengono utilizzati anche a dosi molto più basse e con mezzi meccanici estremamente precisi e sofisticati? La stampa quotidiana questo non lo dice.
Oggi sviluppare una nuova varietà di frumento o un nuovo ibrido di mais costa 136 milioni di dollari e un nuovo agrofarmaco oltre 250 milioni di dollari.
Sempre più collaborazione tra meccanica, sementi e agrochimica
Un altro passo inquietante di Livini:
Il risiko dei semi del resto, assicurano i guru della finanza, è solo all’inizio e tra poco darà il via all’integrazione verticale tra i ricchissimi produttori di macchine (John Deere e Cnh) e i big dell’agrochimica nati dalle recenti fusioni. Con nel mirino le meraviglie dell’agricoltura hi-tech a base di droni e satelliti.
A Livini qualcuno dovrebbe dire che sono almeno sei mesi che il nostro ministro Maurizio Martina ha varato un piano italiano per lo sviluppo dell’agricoltura di precisione (quello che Livini chiama con spregio “droni e satelliti”) che oggi interessa appena l’1% di superficie agricola. Dice Martina: «L’agricoltura di precisione è uno dei cuori pulsanti del nostro lavoro e ne terremo conto nella prossima legge di Bilancio, quando discuteremo di sostegni specifici per gli agricoltori che investono in questa direzione. C’è un incrocio cruciale tra le linee guida dell’agricoltura di precisione, della rivoluzione tecnologica sui campi e il piano industria 4.0 del ministro Calenda. “Produrre di più con meno” è il nostro obiettivo».
È ovvio che i colossi della meccanica devono dialogare con quelli della chimica e delle sementi, altrimenti come possiamo sviluppare le semine e le distribuzioni di concimi e agrofarmaci a dosi variabili e a sfruttare al meglio le mappe di produzione e le immagini dei satelliti?
“Il mix di cibo e chimica ammala le persone”
Passiamo a Cinzia Scaffidi sull’Unità:
L’agricoltura industriale chiede monocolture che però, per il loro scarso tasso di variabilità interna, sono più vulnerabili rispetto a condizioni climatiche e parassiti; si rimedia vendendo a chi fa agricoltura non solo sementi ma anche la chimica, con cui tenteranno di difenderle. Il matrimonio tra chimica e agricoltura diventa così solo utile ma necessario consolidamento dei profitti: perché se vendo sementi che lasciate a se stesse si ammalano, il mio business non prospererà, ma se vendo un kit di sementi e chimica il business raddoppierà. Il mix di cibo e chimica ammala le persone: di nuovo si trova il rimedio, per le finanze in pericolo, con l’industria farmaceutica che sposa quella agrochimica. Ci sfamano, con un cibo debole che ha bisogno di chimica per essere prodotto, quel cibo debole ci ammala ma loro hanno pronte le medicine per guarirci.
Il testo si commenta da solo e ognuno faccia le considerazioni che crede. Ricordiamo una sola cosa alla Scaffidi: ben prima di questi recenti matrimoni, sono svariati decenni che le multinazionali farmaceutiche hanno investito e diversificato, con loro divisioni dedicate, nell’agrobusiness, consentendoci quei salti produttivi necessari alla sopravvivenza del mondo e, da qualche decennio, facendo tutto questo anche con una buona dose di “coscienza” ambientale.
Piacerebbe a tutti, agricoltori compresi, non usare la chimica nei campi, ma sappiamo che così facendo aumenterebbe ancora di più la fame nel mondo. Ce lo possiamo permettere?
Dr. Nicola Gozzoli
Presidente Insieme per la Terra