L’abbandono inesorabile del territorio montano che abbiamo visto negli ultimi anni, sia per motivi economici sia per motivi culturali, ha permesso la crescita della comunità straniera. L’articolo del Corriere non lascia dubbi: 350.000 persone straniere sono diventati i nuovi custodi delle nostre montagne.
Che cosa possono fare le montagne italiane per gli immigrati stranieri e che cosa possono fare gli immigrati per le nostre montagne? La doppia domanda non ha una risposta univoca, ma apre sicuramente spiragli e speranze nuove, forse inattese, nel quadro generale (e preoccupato) dello spopolamento, dell’invecchiamento e del declino economico alpino e non solo. Tra Alpi e Appennini, la presenza straniera era, nel gennaio 2014, di oltre 350 mila persone.
Contro il «sottozero demografico»
Stiamo parlando delle cosiddette Aree Interne, che rappresentano il 53 per cento dei comuni italiani (4.261), con il 23 per cento degli abitanti complessivi (ovvero oltre 13 milioni di residenti in una porzione di territorio che supera il 60 per cento della superficie nazionale). Sull’incidenza delle presenze straniere e sulla eventuale capacità degli immigrati di invertire il segno meno demografico si è tenuto, nello scorso novembre, un convegno all’Università Bicocca di Milano, in collaborazione con la rivista torinese «Dislivelli» diretta da Maurizio Dematteis (splendido anche il lavoro fotografico, di cui pubblichiamo un estratto, che potete vedere sul sito di Dislivelli sfiorando l’icona blu). Che ora pubblica gli atti di quell’incontro.
Record di immigrati in Val Maira e Casentino
La premessa è questa: «Considerando il tasso di incremento medio annuo della popolazione italiana, si può dire che la tenuta complessiva della popolazione nei comuni delle aree interne è dovuta alla crescita della popolazione straniera, specificamente durante il periodo di crisi generalizzata». Secondo i dati Uncem del dicembre 2013, la maggior presenza di popolazione straniera si registrava, ormai più di due anni fa, nelle Valli Maira e Grana (10,6 per cento) in Piemonte (nella foto sopra, tratta da Dislivelli, un immigrato ivoriano a Dronero), nel Casentino-Valtiberina (10,2) in Toscana, nell’area sud-est dell’Orvietano (9,5) in Umbria e nell’Appennino pesarese-anconetano (9,1) nelle Marche. Non abbiamo statistiche aggiornate, ma a quanto si desume dagli interventi milanesi, gli immigrati hanno trovato (e trovano) sempre più occupazione in specifiche porzioni del territorio, spesso in relazione a determinate attività produttive.
Rumeni in Toscana, l’etnicizzazione di case e lavoro
Scrivono Daniela Luisi e Michele Nori: «Sono diversi i percorsi che hanno portato al radicamento di differenti comunità nelle diverse aree, con una sorta di etnicizzazione delle opportunità residenziali e lavorative». Il primo esempio è il Casentino, dove il locale Parco delle Foreste presenta la più alta percentuale di popolazione straniera tra i parchi nazionali italiani (12,3 per cento): si tratta di operatori che lavorano nel settore della conservazione e dello sviluppo del settore forestale. E non a caso una buona parte dei «neo-cittadini», oltre ai macedoni, proviene dal distretto rumeno di Bacau, zona rurale simile a quella toscana, vantando capacità tecniche ed esperienze riconosciute e apprezzate nel taglio e nella cura del bosco. Una vera e propria strategia di inserimento prevede il miglioramento dei servizi sanitari ed educativi (nidi e scuole plurilingui), il potenziamento della formazione di selvicoltura, il sostegno a imprese cooperative.
Biellesi non più ostili agli africani e i cinesi-cuneesi
Andrea Trivero segnala come a Pettinengo (nel Biellese) il costante lavoro dell’associazione Pacelavoro, di cui è direttore, abbia invertito, sin dal 2006, l’iniziale ostilità della popolazione locale nei confronti degli immigrati africani: inserimento nel settore artigiano (con una scuola ad Asti che insegna a tessere, a cucire e a lavorare la ceramica). «Per quanto riguarda la montagna, – ricorda Trivero – noi abbiamo riaperto oltre 15 chilometri di sentieristica, grazie al lavoro di volontariato dei migranti». Pietro Schwarz, coordinatore del Consorzio Monviso Solidale, ricostruisce i «percorsi di inclusione» che a partire dagli Anni Novanta hanno portato alla stabilizzazione di comunità cinesi (nella foto sotto, tratta da Dislivelli, un bimbo cinese a Brigherasio), in particolare a Barge e Bagnolo, nella val Pellice (Cuneo), dove gli immigrati lavorano la pietra: alla fine del 2015 la percentuale di cittadini stranieri a Barge raggiungeva il 18 per cento e i residenti cinesi, nei due centri, superavano le 1400 unità.
L’economia della pietra e il caso Trentino
L’immigrazione ha permesso, tra l’altro, il mantenimento dei posti di lavoro, di scuole che altrimenti sarebbero state accorpate, e la crescita dell’economia della pietra. D’altra parte, va pur detto che la presenza di numerose famiglie cinesi ha anche comportato difficoltà nella vita quotidiana e nella comunicazione, rendendo necessarie iniziative di mediazione sociale e scolastica. Non tutto fila sempre liscio. E se vogliamo godere dei vantaggi dell’immigrazione in zone altrimenti destinate allo spopolamento e all’abbandono, sarà pure necessario mettere in campo un impegno politico complessivo e lungimirante che non lasci tutte le responsabilità all’associazionismo e al volontariato. È quanto sottolinea, con molto realismo, Mauro Marcantoni, direttore della Trentino School of Management, cui si deve una ricerca presentata qualche settimana fa in Senato. Titolo: «La montagna perduta». Sottotitolo: «Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano».
«Salvare i presìdi culturali e ambientali»
Premessa di Marcantoni: «L’addensamento demografico nelle città e nelle periferie metropolitane è un problema che crea seri squilibri. Il conseguente spopolamento della montagna comporta il venir meno di fondamentali presìdi culturali, economici, ambientali». Dunque, si tratta di offrire una dotazione di servizi che renda accettabile la vita quotidiana e sociale: strade, ospedali, scuole, uffici postali, banche, reti telematiche. «Investire sul capitale sociale e sul peso politico: le regioni con una popolazione maggiore hanno retto meglio allo spopolamento, mentre le piccole comunità hanno subìto per lo più un processo disastroso». Il confronto è tra il Trentino Alto Adige e la Val d’Aosta da un lato e dall’altro la Basilicata, il Molise, l’Abruzzo, la Liguria. «In questi secondi casi bisognerebbe – prosegue Marcantoni – investire sulle occasioni di aggregazione, sull’associazionismo, sull’educazione civica, sulle biblioteche, in modo da creare una attrattività straordinaria».
Linfa alla montagna dai flussi migratori
Favorire la presenza di migranti nelle zone montane avrebbe dunque una doppia utilità: «Si offrirebbero spazi e opportunità a queste persone, alleviando il problema dei flussi migratori, e nel contempo si darebbe più linfa alla montagna», dice Marcantoni, «ma con il pericolo di creare zone di ghettizzazione e di esclusione se non si creano condizioni sociali adeguate». Sanno tutti (o quasi) che la montagna è un valore nazionale, ma bisogna pur evitare il rischio della retorica da riserva indiana: «Battersi per preservare pezzi di regioni naturalistiche è apprezzabile: tuttavia pensare la montagna non solo come biotopo ma come luogo di insediamento e di vita comporta responsabilità e visioni politiche più complesse». Vale anche per gli stranieri.
Le proteste del 2011 in Val Camonica
Nel 2011 arrivarono in Val Camonica i primi cento richiedenti asilo nordafricani: ne nacque una rete di micro-accoglienza tra le proteste degli attivisti di casa Pound. Da allora qualcosa di buono è successo: l’apertura di negozi dell’usato, la ristrutturazione dell’Hotel Giardino a Breno, che, a quanto racconta Michela Semprebon, sociologa dell’Alma Mater di Bologna, ha rilanciato la vocazione turistica del luogo, creando nuovi posti di lavoro anche per i residenti italiani. Altre esperienze sono più lievi. In val Borbera, nell’Appennino ligure-piemontese, si è insediata la comunità internazionale Sahaja Yoga, un centro per praticanti provenienti da tutto il mondo, che ha aiutato la microeconomia del posto, nonostante gli iniziali timori e gli allarmi della popolazione locale. A Pragelato, in val Chisone (Torino), metà della popolazione è composta da rumeni impiegati nell’edilizia e da rumene addette ai lavori di pulizia o all’assistenza degli anziani.
La ragazza etiope che fa il pastore
E c’è anche il caso straordinario di una giovane pastora di Addis Abeba: si chiama Agitu Ideo Gudeta, dopo aver fatto l’università in Italia (ha studiato Sociologia a Roma e poi a Trento, la sua storia è stata raccontata anche dal Corriere, sfiorate l’icona blu per leggerla), è tornata in Etiopia per impegnarsi nello sviluppo delle aree rurali del suo paese, ma nel 2010 è dovuta fuggire. Da allora nelle valli del Trentino (per la precisione in Val di Gresta e Vallagarina, tra l’Adige e il Garda) ha avviato un’impresa per l’allevamento delle capre e la produzione di formaggi biologici. Oggi, a 38 anni, è considerata tra i produttori d’eccellenza della provincia, l’anno scorso è stata premiata da Slowfood (Agitu partecipa al salone del Gusto di Torino) per la «Resistenza casearia».
Dr. Nicola Gozzoli
Presidente Insieme per la Terra