I dipendenti pubblici e privati che devono pranzare fuori casa, spesso in una pausa che va dai 30 minuti a un’ora, hanno dovuto affrontare in questi anni un annoso problema: l’utilizzo del buono pasto. L’articolo de Il Giornale, a firma di Maria Sorbi, descrive perfettamente tutta la situazione.
«Non accettiamo buoni pasto». Il cartello, lapidario, da mesi compare in sempre più bar e ristoranti. Rischiando di trasformare la pausa pranzo di 2,2 milioni di dipendenti in una ricerca spasmodica di un panino da poter pagare con i ticket.
Ma come mai i buoni da 5,29 euro in mano agli impiegati sembrano valere meno dei soldi del Monopoli? E soprattutto, a chi conviene utilizzarli al posto del denaro?
I giocatori della partita del pasto fuori casa sono quattro: le aziende (o gli enti pubblici) che decidono di dare i ticket ai propri dipendenti anziché sostenere i costi di una mensa, le società che realizzano i buoni (le cosiddette «sette sorelle»: Qui! Ticket, Ticket restaurant, Sodexho, Day, Buon chef, Ristomat, Pellegrini), i ristoratori che li riscuotono e i clienti che li spendono. Protagonisti che in teoria hanno creato un sistema fatto di rapporti a incastro in cui ognuno ha il suo tornaconto. Ma qualcosa scricchiola e c’è chi rischia di rimanere con il cerino in mano.
Di fatto, il mercato dei buoni è andato in corto circuito e per non collassare definitivamente ha bisogno di una svolta urgente. Il motivo sta racchiuso nell’effetto domino innescato dalle gare d’appalto che mettono in moto il meccanismo per erogare i ticket. Gare al ribasso in cui, pur di aggiudicarsi i bandi, le società che emettono i buoni sono disposte a fare forti sconti a chi richiede il servizio, addirittura fino al 20%. Ribassi talmente sostanziosi che poi diventano quasi impossibili da sostenere. E allora che accade? Per non andare in perdita, le società vincitrici delle gare si rifanno sui bar e sui ristoranti che aderiscono al contratto, chiedendo il pagamento di micro commissioni su ogni buono pasto riscosso e applicando trattenute quasi impercettibili a ogni strisciata di ticket elettronico. Ma il giochino non sta più in piedi e gli esercenti si stanno rifiutando di accettare i buoni dai clienti, stufi di far fronte a quella che, di fatto, è una tassa supplementare (e perfino un po’ occulta) su ogni pagamento. Paradossalmente, molti esercenti non si fanno più nemmeno rimborsare i buoni dalle società ma li spendono nei supermarket e dove possono come fossero denaro vero. Almeno in questo modo non ci rimettono.
LO SCONTO TSUNAMI
Sintetizzando, ecco come funziona il meccanismo dei buoni e come si è inceppato. Un esempio: il datore di lavoro decide di acquistare per i suoi dipendenti buoni pasto da 5,29 euro, cifra al di sotto della quale scatta l’esenzione fiscale. Grazie allo scontro del 20% in sede di gara d’appalto, riesce a risparmiare e lo paga 4,23 euro. Significa che una delle «sette sorelle» ha deciso di guadagnare un euro in meno pur di aggiudicarsi l’appalto.
Tuttavia parte di quell’euro lo recupera in seconda battuta, con piccole (ma costanti) commissioni da far pagare ai baristi in cambio della garanzia di una clientela fidelizzata durante le pause pranzo dal lunedì al venerdì. Si potrebbe obiettare che un euro di sconto durante le gare è poca cosa, ma se proiettassimo lo sconto dei ticket su un valore di 30mila euro, ci accorgeremmo che all’esercente il giochetto costerebbe 3.600 euro. Peggio: a questa cifra vanno infatti aggiunti altri 2.400 euro di oneri finanziari per i ritardi nel pagamento dei ticket ricevuti dai clienti. Ritardi che arrivano anche fino a otto mesi o, nel caso di qualche società, hanno sforato i due anni. Non è difficile capire l’inghippo che ha portato al collasso del sistema.
CHI CI GUADAGNA
In fin dei conti, chi ci guadagna? Nel caso dei bandi per i rimborsi pasto ai dipendenti della pubblica amministrazione (che rappresentano un terzo del mercato tra uffici Inps, Inail, ministeri ecc.) c’è un solo soggetto che può dire di avere un reale tornaconto: la Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. Approfitta dei super sconti e riduce la spesa annuale di almeno 350 milioni all’anno. E va benissimo poiché si tratta di risparmio pubblico. «Ma non è giusto risparmiare sulle spalle di esercenti privati, con una tassa occulta» sostiene Roberto Calugi, direttore generale della Fipe, la federazione italiana che rappresenta i locali aperti al pubblico, che ha appena avviato l’iniziativa «Sos buoni pasto» per mettere fine alle anomalie del sistema. L’unico punto di forza dell’esercente è infatti quello di spezzare la catena e rifiutare i buoni alla cassa. Con il rischio, però, di perdere i clienti. Lo stesso meccanismo delle gare pubbliche è stato clonato nelle gare ad invito indette dai privati (banche e aziende) replicando un giochino di sconti sempre più azzardato. Dal canto loro anche le società che emettono i buoni pasto sono preoccupate: ovviamente sono in attivo, ma anche a loro comincia a stare stretto il meccanismo e rischiano di pagare le conseguenze della protesta dei ristoratori. «Rileviamo un continuo peggioramento di questo mercato – aggiunge Emanuele Massagli, presidente dell’Anseb, associazione delle società che emettono i ticket – Non c’è futuro se si scaricano le difficoltà sugli esercizi. La speranza è che la prossima gara pubblica, in cui la Consip metterà sul piatto 1 miliardo di euro, segni un miglioramento e non il primo passo di un peggioramento».
LE NUOVE REGOLE
Il nuovo decreto del ministero dello Sviluppo economico prevede una norma frena-sconti in sede di gara. Stabilisce cioè che lo sconto sul buono pasto che la società concede alla pubblica amministrazione non possa essere superiore al 3%. In questo modo si dovrebbe cancellare la corsa al ribasso folle che ha praticamente azzerato i margini degli esercenti.
Il decreto inoltre concede qualche beneficio in più ai dipendenti che lo utilizzano: abolisce l’obbligo di utilizzare il buono nel corso della giornata lavorativa e permette un cumulo fino a 8 buoni pasto contemporaneamente, prassi che ora viene ufficializzata ma che, in realtà, è abitudine consolidata già da tempo. Inoltre i ticket potranno essere spesi non solo nei ristoranti convenzionati ma anche negli agriturismi, nei centri ittici.
A nostro giudizio, se ci fossero regole maggiormente chiare e trasparenti, i buoni pasto potrebbero trasformarsi in un aiuto concreto per tutti i dipendenti e per le loro famiglie. E voi cosa ne pensate?
Dr. Nicola Gozzoli
Presidente Insieme per la Terra